domenica 27 febbraio 2011

Avarie della memoria.

Conservare per tramandare è sempre stato compito grave ed irto di ostacoli pratici. Non sempre  sono corrisposti risultati soddisfacenti a specifiche volontà, vuoi perchè i supporti di memorizzazione prescelti non garantirono durata nel tempo o per causa dell’incuria di chi fu destinato a riceverne il cambio di mano e, da ultimo, per l’insorgere di eventi imprevedibili od ingovernabili, come conflitti o calamità naturali. Tanto che, se ci guardiamo attorno, i panorami che la Storia tramanda sono in prevalenza composti da Rovine. Da quasi due secoli l’immagine meccanica conserva porzioni di mondo congelate in un istante ed a nessuno sfuggono i progressi compiuti dalle tecnologie di riproduzione fotografica del reale. Quanto abbiamo identificato come cambiamento di paradigma nel passaggio dal sistema analogico a quello digitale, mentre dilata enormemente le capacità di immagazzinamento nei processi di archiviazione numerica da un lato, dall’altro evidenzia evidenti criticità nella durata e nella vunerabilità dei materiali magnetici, nonchè sulla progressiva ed incessante obsolescenza degli standard tecnologici in materia di conservazione dei dati: in fatto di memoria esterna all’unità computazionale si è passati, nell’arco di poco più di un decennio, dal defunto “floppy-disk” al metallico “Blue-ray” di oggi, ma già in declino.  Da capacità irrilevanti a capacità strabilianti. Evidentemente,  la questione riguarda assai di più la qualità dei contenuti, piuttosto che la quantità dei dati trasportati. Tuttavia, senza la disponibilità di sempre più capienti archivi di memoria, non sarebbe stato possibile veicolare e trasmettere a distanza sequenze ininterrotte di “discorsi” a carattere multimediale. Il linguaggio prevalente per comunicare, specie tra gli appartenenti alle generazioni dei nativi digitali, è quello – ormai tendenzialmente anglofono  - del technologically correct dei manuali di istruzione e delle riviste di elettronica di consumo. Ma, se in questo scenario in cui tutto pare collocarsi secondo una prospettiva di euforico evoluzionismo, considerassimo invece l’estremo grado di vulnerabilità cui sono soggette reti, infrastrutture e veicoli di informazioni, allora ci renderemmo conto di quanto conti la memoria per guardare al futuro. Il grande occhio della memoria collettiva, stivata  entro precari contenitori di materia digitale , ogni giorno corre il rischio dell’imprevedibile “corto circuito”, che non sarebbe necessariamente frutto di azioni volontarie, ma vittima di casualità necessarie o negative coincidenze. Inutile ricordare come, dal baco del millennio a WikiLeaks, quanto si siano accorciate le distanze di sicurezza tra il controllo e la conoscenza degli apparati virtuali. La memoria, la memoria digitale, quella che occupa poco spazio e si conserva a lungo, ma non indefinitamente, è diventato un bene da difendere con ogni mezzo. Sarà su di essa che si potrà contare per immaginare cosa ci spetta, già solo domani. Ma come la globalizzazione economica ha reso interdipendente il mondo intero, così l’universalità del linguaggio dei new-media ha liquefatto i processi di conoscenza, promuovendo una modernizzazione sempre più tecnocratica e meno democratica. Qualunque tipo di perdita di memoria, entro questo quadro, sarebbe catastrofica.

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